24 gennaio 2007

quarantina: il significato di un consorzio


Ripresi dal sito "Dove comincia l'Appennino" brani di un articolo sul consorzio della patata quarantina.

Da “Varieta’ tradizionali, prodotti locali ed esperienze = L'Ecologist italiano. 1: 2005. 3. p 230-275
di Massimo Angelini”

Se sulla montagna la gente ci abita e ci lavora - e le varieta’ locali sono una possibilita’ economica perche’ possa farlo in modo non assistito - quella montagna e’ mantenuta viva e quando piove la terra non frana a valle e non scivola verso il mare. La Quarantina rende mediamente 100 quintali (10.000 Kg) a ettaro (10.000 metri quadrati): dunque, 1 Kg di prodotto significa il mantenimento di 1 mq di terra. Con la stessa argomentazione si puo’ osservare che a 1 litro di birra fatta con la farina di castagne seccate a fuoco nelle nostre aziende corrisponde 1 mq di bosco (per produrre 5.000 litri di birra alla castagna occorrono 150 kg di farina che corrispondono a 5.000 mq di castagneto: dunque, a ogni litro di birra corrisponde un metro quadrato di bosco), che per ogni vacca lasciata libera sui nostri monti vive un ettaro di pascolo e uno di prato, e via di seguito.
Qualcuno potrebbe avere la tentazione di aggiungere che chi vive in citta’ e consuma quei prodotti aiuta gli agricoltori a restare in montagna. In realta’, e’ vero il contrario: sono i coltivatori che, grazie a quei prodotti, aiutano chi vive in citta’, perche’ ogni metro quadrato di bosco curato, ogni metro quadrato di terra coltivata, corrispondono a un metro quadrato di territorio che, quando piovera’, non franera’ e non scivolera’ a valle, non contribuira’ a generare alluvioni e quel disastro idrogeologico che da cinquant'anni erode l'Italia e porta distruzione e lutti.
Cosi’ la terra e’ mantenuta viva, grazie al lavoro produttivo della gente che la abita, piu’ di quanto possano fare molti programmi di recupero del territorio o interventi di ingegneria ambientale. Non e’ la terra che fa vivere i prodotti, ma il contrario, perche’ dove gli agricoltori non lavorano piu’ la terra c'e’ solo abbandono e degrado, oltreche’ perdita di diversita’!
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La comunicazione promozionale dei prodotti locali e’ cosa troppo delicata per lasciarla ad agenzie esterne e a professionisti del marketing. Ogni strategia deve coinvolgere i produttori e essere tra loro mediata, tenendo conto che ogni forma di pubblicita’, diretta o indiretta, va calibrata sulla reale produzione in modo che la domanda stimolata non sia mai troppo superiore all'offerta effettiva. Per questo motivo rinunciamo a partecipare a trasmissioni televisive, evitiamo le campagne di immagine dirompenti e potenzialmente erosive, non aderiamo alle iniziative promozionali di Slow food: non sentiamo il bisogno di essere "presidiati", ne’ ci piace che altri possano vantare il merito di avere "salvato" cio’ che solo i contadini hanno saputo conservare, nel tempo e con discrezione. Comunque, non amiamo sciupare soldi in pubblicita’, in consulenti dell'immagine ne’ in agenzie di comunicazione, e preferiamo che neppure altri -- gli enti pubblici che ci hanno offerto sostegno -- li sciupino cosi’ per noi.
Organizzare un consorzio su una varieta’ che non semina piu’ nessuno e’ una scommessa, e quando lo si fa con i contadini della montagna c'e’ da temere che la scommessa sia gia’ persa in partenza.
Perche’ e’ gente difficile, gente diffidente, refrattari alle novita’; furbi, ingenui e sinceri; inclini al mugugno, fatalisti, grandi solisti; litigano con i vicini anche per le pietre; non sanno lavorare in squadra, non conoscono la cooperazione; isolati per vocazione e per destino su una montagna che sempre piu’ appare un grande e desolato ospizio, di paesi dove nelle sere di inverno da lontano non conti piu’ che tre fili di fumo; vivono di pensioni e contributi, si credono condannati all'estinzione.
A gente cosi’ come gli parli di "fare insieme" e di "spirito imprenditoriale"? Come gli dici che sulla montagna si puo’ fare economia sulla qualita’, senza diventare presepio vivente, senza farsi il museo addosso, senza dare spettacoli estivi da riserva indiana per i cittadini afflitti dalla nostalgia per cio’ che non hanno neppure conosciuto?
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Non e’ facile per nessuno sporcare di terra le parole sull'agricoltura: questo e’ il tempo della comunicazione, e’ la civilta’ dell'immagine, dove le parole bastano a se’ stesse e qualche volta parla di piu’ chi meno sa; cosi’ penso a chi predica il "ritorno" alla terra e a quei cittadini scolarizzati come me che, quando vanno a vivere in campagna, li riconosci facilmente perche’ sono quelli che fanno la lezione agli altri.
Un po' moralisti, un po' millenaristi, a volte teorizzano il "ritorno" alla terra anche se ci vanno a vivere per la prima volta. Parlano con sicurezza di agricoltura biologica, biodinamica, sinergica o del non-fare; parlano di permacoltura, di orti circolari o a spirale; cercano le "antiche" varieta’, anche se ancora non hanno provato a zappare un orto; e appena lo fanno gia’ si sentono contadini.
Va tutto bene. Ognuno fa cio’ che puo’ e cio’ che sa. E va bene provare a coltivare, e se si riesce a raccogliere qualcosa e’ meglio. Ma, prima di tutto, bisognerebbe imparare a coltivare il silenzio e, sopratutto, il rispetto e l'ascolto per chi il contadino lo fa davvero, e di agricoltura deve vivere, anche se i suoi metodi non sono biologici, ne’ sinergici, ne’ olistici, ne’ naturali.
Cosi’, ragionando sulle parole disincarnate e a quelle che qualche volta vestono il nulla, penso alle risorse spese ogni giorno per progettisti, studiosi e consulenti che, in nome dell'agricoltura locale, della biodiversita’ e del recupero delle terre marginali, trasformano il denaro pubblico in progetti che spesso non sono altro che esercitazioni letterarie, carta.

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